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Come licenziare un dipendente

Valentina
Di Valentina. Aggiornato: 26 gennaio 2017
Come licenziare un dipendente

In tempi di crisi come quello che stiamo vivendo, spesso un datore di lavoro si trova a fare delle scelte obbligate anche spiacevoli. Ma c’è anche chi se ne approfitta, per via della condizione di svantaggio del dipendente. Vediamo su www.uncome.it come è regolamentata la disciplina del licenziamento in Italia, alla luce delle ultime riforme del lavoro.

Passi da seguire:
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Il licenziamento di un lavoratore con contratto a tempo indeterminato può avvenire per giusta causa (secondo l’art. 2119 del codice civile) o per giustificato motivo (secondo l’art.3 legge 604/1966). Anzitutto, bisogna definire cosa si intende con “licenziamento per giusta causa”: può riguardare uno o più lavoratori, ma si distingue dal licenziamento collettivo. Può essere originato da una necessità dell’impresa legata ad attività produttiva, organizzazione del lavoro e funzionamento (motivo oggettivo) oppure da «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro” (motivo soggettivo); in quest’ultimo caso non ci può essere il licenziamento in tronco.

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Il licenziamento si può configurare per prolungata assenza, in mancanza di qualcuno che possa portare avanti le mansioni del lavoratore, o per superamento del periodo di comporto (periodo di assenza pari alla somma di tutte le assenze per malattia), a meno che lo stato di malattia sia legato a tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Altre motivazioni che possono giustificare il licenziamento sono il cambio di appalto con l’assunzione del dipendente presso un altro datore di lavoro, il completamento delle attività e la chiusura del cantiere nel settore edile.

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Il lavoratore non può essere licenziato per aver offeso il datore di lavoro ingiuriosamente perché tale comportamento non viola il contratto collettivo (Statuto dei lavoratori, legge 300/1970). Affinchè sia legittimo, il licenziamento deve essere regolato anche in modo oggettivo, deve quindi incidere sull’organizzazione aziendale e sull’applicazione delle disposizioni del datore di lavoro. Altrimenti, se si contestano i metodi e la validità come organizzatore dell’attività lavorativa del datore, si configura solo una “lieve insubordinazione nei confronti dei superiori”. Inoltre, non è legittimo un licenziamento avvenuto per rifiuto di effettuare un trasferimento in un altro luogo di lavoro da parte del dipendente, senza avergli esposto la reale motivazione della richiesta: l’impossibilità di mantenere quel posto di lavoro, con la necessità di ricollocarlo sul territorio a svolgere un’altra mansione.

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Se però nell’ambito della libertà economica privata (art. 41 della Costituzione) il datore di lavoro considera il licenziamento come improcrastinabile nell’ambito delle politiche di gestione dell’attività, può attuarlo, ma deve poterlo giustificare in sede di contestazione. Deve pertanto avere l’onere della prova, ossia dimostrare il motivo oggettivo, l’impossibilità di ricollocare il dipendente in un altro reparto, la connessione con la necessità di recedere dal rapporto di lavoro. In caso di contestazione, il giudice deve controllare la veridicità delle motivazioni, ma non può entrare nel merito delle scelte di ridimensionamento aziendale. Se il lavoratore mostra alcune posizioni che avrebbe potuto ricoprire in alternativa al licenziamento, il datore di lavoro deve giustificare il mancato ricollocamento.

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Se, successivamente al ricorso il giudice considera illegittimo il licenziamento, il datore di lavoro applicherà la tutela reale o quella obbligatoria. La prima prevede il reintegro nel posto di lavoro e un risarcimento pari alla retribuzione maturata, considerando il periodo intercorso senza aver svolto attività lavorativa, per almeno cinque mensilità; con la riforma Monti-Fornero (legge 92/2012) le modifiche all’art.18 dello Statuto dei lavoratori prevedono il risarcimento senza reintegro nel posto di lavoro nel caso di licenziamento illegittimo per motivi economici, previo tentativo di conciliazione obbligatoria; vi è anche una discrezionalità del giudice nella possibilità di reintegro anche per motivi disciplinari, con la possibilità di un’indennità fra 12 e 24 mensilità. La seconda tutela è regolamentata dalla legge 604/1966, secondo cui è prevista la riassunzione entro 3 giorni o il risarcimento di un’indennità tra 2,5 e 14 mensilità; questa regola può essere applicata sollo alle imprese al di sopra dei 15 dipendenti.

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In particolare, per evitare il contenzioso legato all’illegittimità del licenziamento nelle aziende al di sopra dei 15 dipendenti, l’azienda deve comunicare alla Direzione Territoriale del Lavoro, e per conoscenza al lavoratore, del luogo in cui il dipendente presta la sua attività e del desiderio di procedere all’interruzione del rapporto di lavoro, motivando la scelta e prospettando l’assistenza alla ricollocazione sul mercato del lavoro del soggetto. Entro una settimana dalla ricezione, la DTL convoca datore di lavoro e lavoratore davanti alla Commissione provinciale di conciliazione. Le parti possono essere assistite da organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte, da un sindacalista, da un avvocato o da un consulente del lavoro; il tentativo di conciliazione dura al massimo 20 giorni dalla comunicazione effettuata verso la DTL, a meno che le parti non convengano di non voler trovare un accordo; nel corso della procedura, le parti possono decidere di esaminare alternative al recesso.

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Se l’esito della procedura è negativo, l’azienda può licenziare il lavoratore, che può fare ricorso impugnando il licenziamento; il giudice può determinare un’indennità risarcitoria in base al comportamento delle parti. Se l’esito è positivo, invece, il lavoratore ha diritto all’ASPI (Assicurazione Generale per l’Impiego) e può essere previsto l’affidamento dal lavoratore a un’agenzia di somministrazione, intermediazione o supporto al ricollocamento sul mercato del lavoro.

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Una nuova disciplina riguarda anche la pratica delle “dimissioni in bianco”, purtroppo esistente in Italia, che prevede la firma di contratti di lavoro legati però anche alla firma di lettere di dimissioni senza data che il datore di lavoro potrà utilizzare illegalmente a suo piacimento quando lo riterrà opportuno (spesso nel caso di donne che rimangono in stato di gravidanza e diventano quindi indesiderate nel posto di lavoro). In particolare la riforma Fornero prevede che le dimissioni debbano essere convalidate dalla DTL nel caso di dimissioni della lavoratrice in gravidanza, dimissioni della lavoratrice e lavoratore nei primi 3 anni di vita del bambino, dimissioni della lavoratrice e lavoratore nei primi 3 anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento. Negli altri casi, è necessaria la convalida presso la DTL o il Centro per l’impiego competente oppure la dichiarazione firmata dal dipendente, in fondo alla comunicazione di cessazione del rapporto lavorativo, inviata al Centro per l’impiego tramite UniLav.

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Consigli
  • Un commento a parte meriterebbero i rapporti di lavoro a tempo determinato, a progetto, di somministrazione, stagionali, ma la loro trattazione esula dal principale argomento di questo articolo. Se hai altre curiosità legate all’argomento “lavoro”, ti consiglio di consultare l’area Affari nel nostro sito www.uncome.it.

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